« E, per recare in una le molte parole, dicola nostra Repubblica essere la norma di Grecia tutta, e potere ciascun cittadino, stante quella disciplina che vige tra noi, idoneo prestarsi ad ogni sorta di opere con buon garbo e destrezza maravigliosa. Che queste cose poi non sieno, nella presente occasione, una millanteria invece che verità di fatto , lo palesa la potenza della città nostra , che con siffatte costumanze procurata ci siamo. Perciocché sola, fra quante or sono , a qualsivoglia prova ella venga, supera la fama che di lei risuona ; sola non dà al nemico che P assalga materia di sdegno, al pensare da chi venga superato , nè di rammarico ai sudditi, quasi che dominati da gente indegna dell’ impero : anzi, mettendo in vista la nostra potenza avvalorata da segnalati monumenti, e da indubitate testimonianze, formiamo la meraviglia della presente generazione e quella formeremo delle future. Nè a noi fa di mestieri di un Omero che si aggiunga a lodarci, nè di altri che co’ suoi versi presentemente diletti, e che poi la verità dei fatti non corrisponda alla grandiosità del supposto ; noi che col nostro ardire tutto il mare e la terra ci siam resi accessibili, ed abbiamo ovunque stabilito, quasi coabitatori sempiterni, i monumenti del nostro valore e dei disastri dei nemici. Or siccome costoro per una Repubblica si potente, gelosi del dritto di non perderla , hanno incontrato generosamente la morte tra le armi ; cosi vuoisi da quei che restano qualunque travaglio a pro di lei tollerare. « Per lo che a lungo io vi ho parlato della Repubblica , volendo farvi certi ugual gara non essere a voi proposta ed a quei che nulla hanno di sì nobile ; ed insieme volendo porvi con manifesti argomenti nel suo vero punto di vista l' encomio che vo tessendo a costoro , del quale vi ho già esposto i titoli più rilevanti. Conciossiachò la Repubblica , di quelle lodi ond’ io l'ho celebrata, fu adorna pel valore di questi e dei loro simili; e pochi hanvi tra’Greci dei quali non possa farsi elogio che agguagli le azioni, siccome avviene di questi, del cui valore non solo ci dà la morte il più nobile indizio, ma è anche l’ultima prova che lo suggella. Ed invero per coloro che in qualche cosa hanno altramente mancato, giusto è che il coraggio mostrato in guerra a difesa della patria stia in luogo di ammenda ; perocché , cancellando col valore i difetti, maggiore utilità hanno apportato in comune , che danno in privato. Né fu alcuno tra cotestoro che (se ricco fosse) anteponendo di seguitare a godere di sua opulenza , invilisse ; o che, se povero , per la speranza di cacciar l’inopia ed arricchirsi, schifasse il pericolo. Anzi vaghi sovrattutto di punire il nemico, giudicando ciò il più decoroso dei cimenti, lo affrontarono ; e paghi del solo desiderio di quei beni, del nemico stesso si vendicarono, rimettendo nella speranza l' incertezza della vittoria, ma pieni del dignitoso pensiero di confidar nelle proprie braccia, quanto al pericolo che avean dinanzi agli occhi : e più bello stimando l' istesso morire in resistendo al nemico , che il salvarsi cedendogli f schifarono l’obbrobrio del pubblico rimprovero, sostennero coi loro corpi la prova ; e nel breve momento, in cui la sorte decise, nel colmo della gloria , anziché del timore, da uoi si dipartirono. « Che se essi tali furono quali richiedeva la dignità della Repubblica, bisogna si che voi rimanenti bramiate più prosperi, ma sdegniate men fermi pensieri incontro ai nemici ; non ponderando di tal coraggio l’utilità per le sole parole d’un oratore che possa a lungo dichiararla a voi, che non men bene la conoscete (colFesporvi quanti beni derivino dal respingere il nemico), ma piuttosto osservando giornalmente nelle azioni la grandezza della Repubblica , e di lei innamorando. E quando amplissima ella vi paia, pensate che tale ampiezza le acquistarono uomini generosi, giusti estimatori del proprio dovere, animati nell’ imprese da onorata vergogna : e se per avventura fallisse loro qualche prova , non però stimavano dover la Repubblica esser defraudata del loro valore ; che anzi pagarono ad essa il più decoroso tributo. Offrendo infatti con fermezza comune il proprio corpo in guerra , si hanno acquistata particolarmente lode sempiterna e sepoltura orre volissima , non là principalmente ove posano le loro ossa , ma gloria durevole ovunque si presenti l’occasione d’arringa o di fatti guerrieri. Conciossiachè a’ prodi tutta terra è tomba , e non solamente nel proprio suolo il lor valore si mostra per lo scritto sul sepolcro , ma anche nelle più remote terre indelebile rimane la ricordanza di essi, scolpita non piuttosto nella pietra che nel petto di ciascheduno. Emuli or voi di questi, e stimando la felicità consistere nella libertà , e questa nella grandezza d’animo , non siate restii ad affrontare i pericoli della guerra, ponendo mente che gli sciagurati, ai quali non resta alcuna speranza di bene, non hanno più giusti motivi di esser prodighi della loro vita, di quello che coloro pei quali, ove continovino a vivere, sono da temere i cangiamenti della fortuna, e pei quali gli sbagli che commetter possano sono di grandissimo momento. Perciocché per chi ha un’ anima nobile è più doloroso l’ avvilimento accompagnato da codardia, che una morte intrepida , la quale appena si avverte, occorsagli in mezzo alla speranza del pubblico bene. « Il perché io non mi farò a compiagnere voi che siete padri di questi estinti, ma voglio pittosto racconsolarvi : giacché si sa esser la vita dell’uomo sottoposta a mille fortunosi accidenti ; e coloro esser felici che sortita abbiano decorosissima come questi la morte, o dolore onorevole come è a voi intervenuto, o in ultimo quei che tutta la carriera della vita misurarono in seno alla felicità. Malagevol cosa egli è, ben lo veggo, persuadervi di queste cose ; perchè di esse anche spesse volte vi faranno sovvenire le altrui felicità, onde voi pure, non ha guari, andavate fastosi ; e perchè dolore arreca non la mancanza di beni non provati, ma si di quei ai quali eravamo avvezzi. Nondimeno debbono quelli che sono in età di aver figli confortarsi sulla speranza di altra prole ; imperocché questi che verran dopo indurranno nelle famiglie dimenticanza dei trapassati, e doppio vantaggio ne ridonderà alla Repubblica; non tanto perchè ella non rimarrà deserta, ma ancora perchè coopereranno alla fermezza di lei. E di vero impossibil cosa egli è, che coloro i quali, del pari che gli altri, non han figli da esporre per il beue della patria, dieno consigli giusti ed imparziali. Voi poi che piegate alla vecchiezza, e che per somma ventura foste felici il più della vita, pensate breve essere il corso che vi avanza , e consolatevi colla gloria di questi estinti. Sola infatti la passion per l’onore non invecchia; e nell’ età cadente non diletta, come alcuni avvisano, il guadagno, ma sibbene l’esser tenuto in onoranza. « A voi finalmente, quanti qui siete, figli o fratelli di questi valorosi, non picciola gara veggio esser proposta : conciossiachè ognun lodi quel che più non è ; e quand’anche gli superaste in prodezza, appena inferiori di poco, non che loro eguali giudicati sareste. Perchè i viventi invidiano il competitore, ed all’opposto quel che più non imbarazza apprezzano con equo animo. Che se qualche cosa deggio dire anche della virtù di voi donne, quante vi troverete in stato di vedovanza, il tutto in breve esortazione ristringerò. Gloria somma sarà per voi non degenerare dall’ indole di modestia propria del vostro sesso, e gloria pur somma ne avverrà a quella tra voi, della quale, sia in lode sia in biasimo , il men possibile si parli tra gli uomini. « Io vi ho esposto colle parole, secondo la legge , ciò che più mi è sembrato a proposito : quanto al fatto poi, siccome questi son già stati onorati di decorosa sepoltura, cosi i loro figli, da questo momento sino alla pubertà, verranno a pubbliche spese dalla Repubblica alimentati , volendo ella proporre ad essi ed ai posteri, per animarli a siffatti combattimenti, una corona che sia principio di beni allo stato ; perocché ove sono grandissime ricompense al valore, ivi pure fioriscono valentissimi cittadini. Rinnuovate or dunque il vostro tributo di duolo per chi vi appartiene e ritiratevi ». Tali furono le esequie in quest’inverno, passato il quale finiva il primo anno della guerra. Appena cominciata P estate, i due terzi dell’ esercito dei Peloponnesi e degli alleati invasero l’Attica (come avean fatto da primo) guidati da Archidamo figliolo di Zeusidamo, re dei Lacedemoni ; e fermatovi il campo saccheggiavano il territorio. Pochi giorni dopo la loro invasione incominciò tra gli Ateniesi la peste, che si diceva avere anche di prima infuriato in molti altri luoghi, come in Lemno ed altrove. Ma non si avea ricordanza che in verun luogo avesse si violenta pestilenza, e morìa sì grande di gente. Conciossiaehè in principio non valeva in quella alcun senno umano o virtù di medicanti che ignoravano la qualità del malore , e che più facile degli altri morivano , in quanto che comunicavano più spesso cogl infermi. Le supplicazioni nei templi, il ricorso agli oracoli e l' altre cose di siimi fatta sino allor praticate non facevano alcun profitto ; in-» Unto che sopraffatti dalla violenza del malore, cessarono anche da queste. È fama che la pestilenza incominciasse nell’Etiopia al di là dell’Egitto : e calando poi nell’Egitto stesso, nella Libia, ed in gran parte delle terre soggette al re, si avventò improvvisamente alla città d'Atene, ove prima di tutto toccò gli abitanti del Pireo, cosicché fu da essi detto avere i Peloponnesi gittato dei veleni nei pozzi, at» teso che non eranvi ancora fontane ; e di lì discorrendo nella parte superiore della città , maggiore era il numero di quei che morivano. Dica pertanto ciascuno, medico o no che egli sia, giusta la sua opinione , donde s'abbia a credere che muovesse, e quali sieno state le cause che valsero a partorire tanto rivolgimento ; che io in quanto a me che ne fui malato e vidi pur gli altri, dirò quale si fosse, e dichiarerò quello per cui ciascuno potrà indubitatamente riconoscerla (essendone innanzi informato) se mai di nuovo cadesse. Correva quell’ anno, a confessione Universale » immune sovra tutti da malattie ; o se qualcuno era di prima da qualche morbo afflitto, tutti si risolvevano in questo. Gli altri poi senza alcuna precedente cagione, ma interamente sani, erano all’ improvviso compresi da veementi caldure al capo , da rossezza e infiammazione d’occhi, e nell’interno la gola e la lingua diventavano tostamente sanguigne, e mandavano alito puzzolente fuor dell’usato. Dopo di che sopravveniva starnutazione e raucedine , ed m breve il male calava al petto con tosse gagliarda : e qualora si fosse fitto sulla bocca dello stomaco lo sovvertiva, e conseguitavano tutte quelle secrezioni di bile, che da’ medici hanno il loro nome, con grandissimo travaglio. Moltissimi ancora erano attaccati da un singhiozzo vuoto che dava forti convulsioni, le quali, a cui subito , a cui molto più tardi cessavano. L’esterno del corpo non era a toccare molto caldo, nè pallido ; ma rossastro , livido e gremito di pustulette ed ulceri ; mentre le parti interne erano in tal bruciore che i malati non potevano sopportare d’avere indosso nè i vestiti nè le biancherie più fini ; ma solo di star nudi. Recavansi a gran diletto tuffarsi nell’acqua fredda ; di che molti de’meno guardati, tormentati da sete incontentabile, si gettarono nei pozzi : ed erano ridotti a tale che profittava egualmente il molto e il poco bere, travagliati incessantemente da smania inquieta e da vegghia continua. Ciò nonostante finché la malattia era nel suo colmo, il corpo non languiva, ma contro ogni credere durava gl’ incomodi, talché i più , o erano da interno calor consumati nel nono o settimo giorno, avendo ancora qualche residuo di forza, o se pur scampavano , scendendo il morbo nel ventre, si faceva grande esulcerazione con sopravvenimento di diarrea immoderata, intantochè poi la maggior parte morivano di debolezza. Perocché il male , fisso prima nel capo, incominciando di .sopra discorreva per tutto il corpo ; e se vi era chi superasse cotesti più fieri malanni; almeno le estreme parti indicavano d’ essere state comprese dal morbo, il quale prorompeva sino nelle vergogne e nel sommo delle mani e dei piedi ; e molti guarivano perdendo affatto queste parti ed anche gli occhi. In altri la convalescenza era immediatamente seguita da smemoraggine di ogni cosa egualmente, a segno che non riconoscevano nè sé stessi, nè gli amici. Questa spezie di morbo superiore ad ogni racconto che far se ne possa, si avventava a ciascuno con acerbità da non reggervi forza umana: e principalmente mostrossi esser bene altra cosa che una delle malattie comuni, da questo; che gli uccelli ed i quadrupedi che mangiano carne umana, bene che molti cadaveri restasero insepolti, o non vi si accontavano, o gustandoli morivano. Argomento ne fu la mauifesta mancanza di tali uccelli che non si vedevano intorno a veruno di quei cadaveri nè altrove ; e sovrattutto i cani i quali, perchè assuefatti a conversare con gli uomini, rendevano più sensibile tal crudel conseguenza. Del rimanente per tralasciar molte altre stravaganze della pestilenza (secondo che in diverso modo accadeva in ciascuno) questa era in generale la qualità del morbo : nessuna delle altre consuete malattie affliggeva allora la città ; e se alcuna ve n’ era, andava a finire in questa. Morivano poi alcuni perchè non assistiti, altri benché perfettamente curati : nòn fuvvi, per cosi dire, medicamento alcuno che usato facesse profitto : ciò che avea giovato ad uno nuoceva ad un altro: nè valeva complessione robusta o debole contro la furia del male, il quale uccideva anche i più accuratamente medicati. Ma il più terribile della pestilenza era lo sgomento tosto che uno si sentiva malato ; poiché cadendo in disperazione, più di sé in verun modo non curavano , nè alcun riparo prendevano, e, per lo comunicare insieme in servendo agl’ infermi , incorporando il contagio , come pecore morivano : lo che accresceva assaissimo la mortalità. Se per paura ricusavano visitarsi scambievolmente, morivano privi d’ ogni assistenza, e molte case rimasero vuote per mancanza di serventi : all' incontro se si visitavano contraevano il morbo ; ciò che principalmente interveniva a quei che ambivano desser tenuti caritatevoli, perchè vergognando di risparmiarsi visitavano gli amici ; avvegnaché i parenti striasi , vinti finalmente dalla violenza del male, non valevano a sopportare i lamentevoli gridi dei moribondi. Ciò non pertanto più degli altri compassionavano il moribondo e Yinfermo quei che ne erano campati, tra perché avevano provato il male, e perchè erano ornai pieni di coraggio, essendo che la malattia non si appigliava mortalmente uua seconda volta ; ed erano felicitati dagli altri, mentre il gioia inaspettata della guarigione nutriva in essi speranza e conforto per l’avvenire, quasi non avessero ad esser morti da verun’altra malattia. Ma l’introduzione della gente di campagna in città, oltre al malore che soffrivano, oppresse anche più gli Ateniesi, e principalmente gli ultimi venuti. Condor siachè per mancanza di case alloggiando questi in tuguri, ove per la stagione che correva restavano soffocati dal caldo, morivano in mezzo alla confusione, e spirando giacevano ammonticati gli uni su gli altri ; e per bramosia d’acqua semivivi voltolavansi per le strade e presso tutte le fontane. Gli stessi sacri recinti ove avevano dispiegato le tende erano pieni dei cadaveri di quei che vi morivano. E poiché senza modo cominciò a montare la ferocità della pestilenza , posero in non cale le cose sacre e profane egualmente, non sapendo quello che di sé addiverrebbe; cosicché le sacre cerimonie usate dianzi nel seppellire erano tutte perturbate, dando ciascuno sepoltura in quel modo che poteva. Molti furono che per le già accadute continue morti dei loro , trovandosi privi dei congiunti si volsero a cercar sepolture senza nissuno onesto riguardo ; perciocché alcuni gettavano il morto sulle pire altrui, prevenendo quelli che le avevano accatastate, e vi appiccavano il fuoco ; altri nel mentre si bruciava un cadavere ponevanvi quello avevano in su le spalle e se n’ andavano. Questo morbo fu pure nel rimanente quello che originò le più grandi nequizie nella Repubblica. Imperocché al veder le frequenti mutazioni sì dei ricchi che repentinamente morivano, sì degli altri che per l' avanti stremi essendo di tutto, entravano a possedere le cose di quelli, stimavano doversi affrettare a goderle per far quanto era loro a grado ; e riguardando la durata della vita c della ricchezza egualmente d’un giorno solo, trascorrevano più arditamente a quelle cose, la cui passione studiavano dianzi di celare. La fatica precedente il conseguimento d’un fine reputato onesto non era chi volesse imprenderla, stimando incerto se prima di giugnerlo non avesse ad esser vittima della peste ; e solo ciò che apparisse piacevole e per ogni lato vantaggioso si aveva per onesto ed utile. Niono era raffrenato dal timor degli Dei o da legge d’uomini : non dal primo, perchè vedendo tutti perire , giudicavano tutt’uno avere o no religione ; non dall’altra, perchè nessuno si aspettava di viver tanto che potesse farsi processo de' suoi delitti e pagar la pena : anzi vedendone sovrastare una più grave gih decretata dai fati, avvisavano prima di incontrarvisi doversi godere un poco la vita. In mezzo a si acerbo trambusto erano gli Ateniesi afflitti dalla moria della gente in città, e al di fuori dal saccheggiamento delle campagne. Si ricordavano , come è naturale nella disgrazia, anche di questo verso che i più vecchi raccontavano anticamente cantato ; Verrà dorica gnerra e loimo insieme. Fuwi certamente disputa nel popolo, non essere stata usata dai vecchi la voce loimo (peste) bensì limo (fame). Ma prevalse allora, com’era da aspettarsi , la voce loimo. Imperocché la gente la rammentava interpretandola conforme ai mali presenti: e se mai sarà che altra guerra dorica sopravvenga dopo questa , e vi si combini limo, lo canteranno verisimilmente con questo vocabolo. "Vi era ancora chi sapeva e rammentava la risposta del nume domandato dai Lacedemoni f se dovessero far guerra ; allorquando ei rispose, che facendola con tutte le forze avrebbero vittoria, e che egli stesso vi avrebbe concorso. Riflettendo dunque a quell’oracolo conghietturavano essere il fatto presente in corrispondenza di ciò; perchè subito do-’ po l’invasione dei Peloponnesi era incominciata la pestilenza , la quale non penetrò nel Peloponneso, almeno in modo degno di menzione ; ma fece strazio principalmente di Atene e quindi d'altri luoghi i più popolosi. Tali sono le cose che riguardano la pestilenza. Ma i Peloponnesi devastato che ebbero la pianura si avanzarono nella terra chiamata Paralo (maremma)7 sino al monte Laurio , ove gli Ateniesi hanno le miniere dell’argento. Quivi diedero primieramente il guasto alla parte che guarda il Peloponneso , e poi all'altra verso Eubea ed Andro. Ciò nonostante Pericle tuttora generale, come lo era nella precedente invasione, continovava nella medesima sentenza, che gli Ateniesi non uscissero in campagna. E mentre il nemico era ancora nella pianura, prima di metter piede nella terra paratia, egli apparecchiava una flotta di cento navi per andar contro il Peloponneso ; ed ordinato il tutto fece vela. Conduceva sulle navi quattromila Ateniesi di grave armatura, e trecento cavalieri su barche da trasportar cavalli, formate allora per la prima volta co? materiali delle navi vecchie. Presero parte alla spedizione anche i Chii ed i Lesbii con cinquanta navi. Quest’armata degli Ateniesi quando uscì del porto, lasciò i Peloponnesi tuttora nella maremma dell'Attica. Pervenuti ad Epidauro nel Peloponneso guastarono gran parte della campagna, e dato l’assalto alla città vennero in isperanza di prenderla, ma la cosa non riuscì ; onde ritiratisi da Epidauro saccheggiarono la campagna trezeniese, l’aliese e l’ermionese, luoghi tutti sulle coste del Peloponneso. Di là salpando, arrivarono a Prasia cittadella marittima della Laconia, saccheggiarono parte della campagna, presero la stessa cittadella e la devastarono» Ciò fatto, ritornarono a casa, e trovarono che i Peloponpesi non erano più nell’Attica, ma s'erapo ritirati. Ora tutto quel tempo che i Peloponnesi si trattennero nel territorio ateniese, e mentre gli Ateniesi militavano sulle ua\i9 la pestilenza, tanto neH’armata che in città, rifiniva gli Ateniesi ; tal che fu voce avere i Peloponnesi, per paura del morbo, sollecitato la ritirata dalrAttica , poiché ebbero inteso dai disertori essere la peste in Atene, e vedevano dar sepoltura ai morti. Nondimeno in questa spedizione la dimora loro fu lunghissima, essendovisi trattenuti circa quaranta giorni, nei quali diedero il guasto a tutto il territorio. Nella medesima estate Agnone figliolo di Nicia e Cleopompo di Clinia , colleghi di Pericle nel comando, presero l' armata di cui egli aveva usato , e portarono subitamente la guerra contro i Calcidesi della Tracia, e contro Potidea cinta tuttora d’assedio. Giunti a questa città approssimarono le macchine alle mura, e fecero ogni prova per espugnarla : ma né l’espugnazione della città, nè le altre operazioni riuscivano loro in corrispondenza di tanto apparecchio ; essendo che il morbo sopravvenuto costà afflisse per ogni modo gli Ateuiesi, e distrusse l’esercito con tanto furore, che i soldati stessi che vi erano di prima mantenutisi sani fino allora, contrassero la malattia per le soldatesche venute con Agnone. Formione coi mille seicento non era più intorno ai Calcidesi ; il perchè Agnone tornò con la flotta ad Atene, avendo in circa quaranta giorni perduto per la peste mille cinquanta di quei quattromila. La gente che vi era innanzi restò ferma al suo posto continovando Tassodio di Potidea. Dopo la seconda invasione dei Peloponnesi, vedendosi gli Ateniesi saccheggiata un’ altra volta la campagna, e trovandosi oppressi dal morbo e dalla guerra ad un medesimo tempo , mutaronsi d’animo. Davano carico a Pericle di averli confortati alla guerra, e di trovarsi per cagionsua in quelle sciagure: e bramosi di accordare coi Lacedemoni vi mandarono legati, ma senza effetto veruno. Ridotti adunque per ogni lato in gran sospensione d’ animo , s’ affollavano tutti addosso a Pericle, il quale vedendo che adirati per il presente stato di cose facevano appunto tutto quello che aveva previsto, coll’autoritá di generale che ancor riteneva gli adunò a parlamento. Voleva egli inanimirli ; e divertendo dai loro animi la collera renderli più trattabili e meeo timorosi : onde si fece innanzi e parlò in questi termini. « II vostro sdegno contro di me non mi giunge inaspettato, poiché non ne ignoro i motivi : ed ho convocato l’adunanza appunto per farvi avvertiti e rimproverarvi , se a buon dritto non siete o adirati contro di me, o sbigottiti pei disastri. Io per me credo, che una repubblica florida e vigorosa nell' universalità porti ai particolari vantaggi maggiori di quello che, se prosperosa nei privati interessi di ciascun cittadino , ella nel suo insieme vacilli. Imperocché quantunque un cittadino nel suo particolare si trovi bene, nondimeno se la patria si perde, egli è compreso nella rovina ; ma se sia sfortunato in seno a prosperevol repubblica, suole viemeglio trovarvi salvezza. Posto adunque che la repubblica può esser sostegno alle disgrazie dei particolari, e che ognuno di questi non può esserlo a quelle di lei, come non debbon tutti concorrere a soccorrerla ? Ah ! non vogliate, come fate adesso , sbigottiti ciascuno dalle domestiche sciagure, porre in non cale la salute della Repubblica, incaricar me d’avervi animati alla guerra, e voi stessi insieme, che coq meco conveniste. Eppure vi adirate con un uomo , quale io mi sono, che crede di non esser da meno di chicchessia per discernere il bisogno della Repubblica, e per saperlo dichiarare : amante della patria e superiore al denaro. Re-» quisiti importantissimi ; perocché chi conosce quel bisogno , ma non lo sa ben dichiarare , è come se non gli fosse Mai caduto io pensiero : se fornito di queste due doti inanca d'amore per la patria, medesimamente non parlerà punto da amico : Abbia finalmente anche questa amorevolezza , s’ei si lascia vincere dal denato, venderà per questo solo tutta insieme la Repubblica« Però se vi siete lasciati persuadere da me a far la guerra , credendomi più degli altri fornito mediocremente di queste qualità , ragion non consente che io sia accagionato de’ vostri disastri. « Ed invero per un popolo d’altronde florido, al cui arbitrio fosse rilasciata la Scelta, sarebbe stata gran follia prendere il partito di guerra : ma ove fosse inevitabile, o cedendo divenir subito schiavi altrui, o tentando la fortuna della guerra guadagnar la vittoria , dii schiva il pericolo è più vituperevole di chi lo sostenne. Ed io per me sono sempre lo stesso, nè mi rimuovo t voi siete i volubili , ai quali poiché non ancor danneggiati venne fatto di seguire il mio consiglio, oia condotti a mal termine ve ne pentite a segno, che per la imbecillità dell'animo vostro non sembra più giusto il mio parlare : e ciò appunto perchè quel che affligge si fa già sentire a ciascuno, laddove è ancor lontana da tutti la manifestazione dell’ utilità del mio consiglio. Nel rovesciamento grande avvenuto ad un tratto, l’animo vostro non vale a durare nelle prese risoluzioni : e bene io so che un accidente repentino, inaspettato ed affatto straordinario avvilisce anche un animo generoso , come oltre a molti altri motivi è accaduto a voi, soprattutto pel morbo che ci affligge. Nondimeno però abitatori di città grande, ed educati coi costumi che le convengono , dovete esser pronti a sostenere le più grandi calamità , e a non oscurare il decoro di quella : poiché il pubblico si fa dritto di rimproverare chi per ignavia si dilunga dalla reputazione che gode, e di aborrire chi temerario ambisce quella che non è fatta per lui. Laonde mettendo a parte il dolore dei privati interessi, intendete alla pubblica salvezza. et Rispetto poi al dubbio che le fatiche della guerra non abbiano ad esser grandi senza però facilitarvi più la vittoria, devono certamente bastarvi quelle ragioni con cui spesse fiate vi ho dimostrato non esser giusto il dubbio vostro. Voglio ora chiarirvi di quest’ altro vantaggio , il quale tutto che si trovi della vastità del vostro impero, non è stato mai avvertito da voi, nè da me nelle precedenti arringhe : nè ora io lo produrrei, perchè avente faccia di millanteria , se non vi vedessi sbigottiti fuori di ogni ragione. Voi credete di comandare solo ai confederati , ed io vi dichiaro che due essendo le parti destinate all’ uso umano, cioè terra e mare, d’una siete interamente padroni , non solo in quella misura che or ne godete , ma più oltre eziandio, cjualor vogliate : quanto all’altra, non vi è alcuno che, con le forze marittime onde or siete fomiti, impedir vi possa di correre il mare, foss’ e^rli il re stesso « od altra nazione che ora si conosca: cosicché questa potenza non istà punto in comparazione del godimento delle ville e delle campagne, la cui perdita voi stimate un gran cliè. Ed invece di adirarvi, ragion vuole che non vi curiate di quelle, risguardaudole, al paragone di (juesta potenza , non altramente che un’ acconciatura graziosa della chioma, od altra frivolezza che per ghiribizzo di lusso si usi dai ricchi \ e clic intendiate bene che ove ci manteniamo la libertà, sostenendola vigorosamente, dessa agevolmente ci ricupererà coteste cose ; laddove col soggettarsi ad altri sogliono perdersi anche i beni tutti, che con quella potenza si erano acquistati. Sono questi due oggetti nei quali noi dobbiamo mostrarci da meno dei padri nostri, che colle loro fatiche e non con titolo d’ eredità possederono quest’ impero, e che di più lo seppero conservare e lasciare a noi : ora , è più vergogna lasciarsi torre quel che uno ha, che andar fallito nel tentar degli acquisti. Corriamo dunque ad affrontare il nemico, non solo con animo altiero, ma eziandio con generoso disprezzo. Conciossiachè il vantamento può allignare anche nell' animo di un codardo per la felicità della sua imperìzia ; ma il generoso disprezzo è proprio solo di chi pel savio suo accorgimento confida di superare il nemico ; pregio che è tutto nostro. Cotesto savid accorgimento col generoso disprezzo assicura viemaggiormente l' ardire anche in fortuna eguale : perchè si fonda non su la speranza , il cui potere è incerto, ma sul consiglio ; il quale, derivando da forze che si posseggono , più sicuramente antivede. « A voi dunque è richiesto che senza fiiggtr le fatiche, o cooperiate all' onoranza onde pel suo impero è fregiata la Repubblica (lo che è pur decoro di ognuno di voi ), ovvero che nemmeno pretendiate a siffatta onoranza. Nè dovete credere d’avere a combattere soltanto per non cambiare la libertà in servaggio ; ma di più per non perder l’impero, e per schifare il pericolo degli odii contratti quando lo tenevate. Nè ora potete altramente receder da quello ; sebbene vi sia chi preso da questo timore nel caso presente, fa consistere la virtù di buon cittadino in un inerte riposo. L' impero che tenete è oramai come un’ assoluta monarchia; e per quanto paia ingiusto l’averlo preso, è pericoloso il dimetterlo. Or gente di tal fatta , se riuscisse ad insinuare negli altri i propri sentimenti, e se avesse sopra di sè T intero governo della Repubblica , non ad altro varrebbe che a perderla prontamente : poiché tranquillità non dura se non congiunta con attività ; nè conviensi a città dominante, ma a suddita , per vivere in sicura schiavitù. « Per lo che non vi lasciate sedurre da tal gente, nè vogliate adirarvi meco, col qual coiiveuiste doversi far guerra , poniamo che i nemici colle invasioni abbiano fatto quello che era da presumere , non volendo voi ricever legge da loro. La peste, sciagura tra tutte la sola superiore alla nostra espettazione, e però da noi non prevista , ha concitato più che.tutt’altro , ben mi accorgo, gli animi vostri contro di me : ma a torto , seppure non vogliate anche attribuirmi ogni buona ventura che inopinatamente vi sopravvenga. Ora quel che viene dai numi vuoisi sopportare di necessità ; quel che viene dai nemici con coraggio : e posciachè queste erano di prima le costumanze della nostra Repubblica, cosi non dovete ora cessarle. Non vi è ignoto aver ella in tutto il mondo grandissima rinomanza , perchè non arrendevole alle sciagure; avere in guerra speso moltissimi cittadini c travagli ; essersi procacciata sino al dì d’oggi potenza, la cui memoria ( benché adesso, come tutto naturalmente infievolisce, talvolta ci rilassiamo) rimarrà eterna tra posteri : aver noi, Greci come siamo, dominato gran parte dei Greci, e in guerre sanguinosissime fatto fronte tanto a tutti i nostri nemici insieme , quanto a ciascuno di loro alla spartita ; ed abitare città doviziosissima e considerevolissima. Biasimi pur l’iuerte a sua posta glorie siffatte ; ma chi aspira a qualche laudevole impresa dovrà emularle ; e chi non valga ad aggiugnerle, ingelosirne. E quantunque Tessere odiato e grave nel tempo del comando avvenga a tutti quelli ambiscono di comandare agli altri ; nondimeno chi si piglia cotesta invidia per cose somme , la pensa bene ; perché T odio non regge lungamente ; e lo splendore presente e la gloria avvenire rimane eterna. Voi adunque imparate a conoscere quel che vi sarà decoroso per l' avvenire, e non vergognoso adesso ; e fin d’ ora brigatevi animosamente a conseguir l' uno e l' altro. Laonde non mandate araldo ai Lacedemoni, nè vi mostrate oppressi dai presenti disastri; perciocché coloro che uelle sciagure si dolgono il men possibile nell' animo , e a tutta possa vi resistono col fatto, questi, sia di città , sia di particolari, sono i più compiutamente valorósi ». Con tal ragionamento cercava Pericle di rimuovere da sè la collera degli Ateniesi, e divertirne la mente dalle presenti calamità : essi quanto alle cose importanti al pubblico concorrevano nella sentenza di lui ; non più spedivano legati ai Lacedemoni, e con più ardore inchinavano alla guerra, benché afflitti in privato pei mali che soffrivano. Querelavansi i poveri in vedendosi spogliati anche di quel poco avevano al cominciamento della guerra ; i ricchi avendo perdute le belle possessioni di campagna ed i preziosi mobili, e soprattutto perchè avevano guerra in cambio di pace. Nondimeno lo sdegno universale contro Pericle non si calmò, sinché non lo ebbero condannato ad una multa pecuniaria : ma poco dopo, al solito del popolo , Io elessero nuovamente generale , ed a lui commisero gli affari della Repubblica. Erano già divenuti più insen^ sibili pei privati disastri, e d’altronde avevano di lui gran concetto pei bisogni dello stato : poiché mentre in pace ebbe il governo della Repubblica, la reggeva con moderanza, la conservava sicura, e sotto lui ella pervenne all’auge della potenza : e quando poi insorse la guerra , fu palese anche in questa come egli ne avesse preconosciute le forze. Sopravvisse trenta mesi, e dopo la sua morte fu anche meglio riconosciuto il suo antivedimento in fatto di guerra. Ed invero egli prediceva vittoria, solo che standosi quieti attendessero alla marina , senza mettere a repentaglio la città stessa col cercare d’ampliarne il dominio durante la guerra ; laddove essi fecer tutto il contrario non solamente in questo , ma anche nelle cose che parevano impertinenti alla guerra ; perchè guidati ognuno da privata ambizione e dal proprio guadagno, regolarono malamente per aè e per gli alleati le faccende politiche. Se alcuna cosa a vea buon successo, l’onore ed il vantaggio era tutto pei privati; se andava in sinistro, ne pativa la Repubblica rispetto alla guerra che sosteneva. Ciò procedeva da questo, che , Pericle potente per dignità e per senno e manifestamente incorruttibile d’animo , conteneva con liberali modi la moltitudine, guidandola più presta che esser guidato da lei ; perciocché non avendo acquistato autorità con pratiche indecenti, non era mai che parlasse per andarle a compiacenza; anzi godeva egli tal reputazione da contradirla animosamente. Di che se vedesse i cittadini imbaldanzire intempestivamente per checché fosse, sapeva colla parola attutarne l’orgoglio e ridurli a temenza ; se per contrario inviliti senza ragione, rilevarli al coraggio : cosicché il governo era in apparenza democratico , ma in sostanza reggimento di un personaggio primario. Ma i posteriori a lui, essendo più alla pari tra loro , ed aspirando ciascuno al primato , si volsero a secondare il popolo , e a rallentare il governo dello stato. Questi disordini (com’era da aspettarsi in città grande e dominante) oltre molti altri errori, partorirono anche quello della spedizione navale in Sicilia ; il quale non vuoisi tanto attribuire al difetto di cognizione delle forze dei popoli contro cui s\ andava, quanto a colpa dei magistrati che tale spe dizione ordinarono ; i quali non che brigarsi di conoscere ciò che potesse esser utile alla gente che vi andava f per le loro gare di primeggiare nel popolo, non solo infievolirono le operazioni di quell’armata, ma ancora causarono che lo stato della Repubblica, diviso in varie fazioni, andasse per la prima voiUi in iscompiglio. Pure nonostante la rotta avuta in Sicilia (ove oltre agli altri apparecchi di guerra, perderono la maggior parte della flotta) ; nonostante le parti che già regnavano in città , gli Ateniesi resisterono tre anni ai I^acedemoni loro primi nemici, a quei di Sicilia che si unirono con essi, di più agli alleati che si erano per la maggior parte ribellati, e finalmente a Ciro figliolo del re di Persia, venuto in rinforzo dei Peloponnesi, ai quali sommiuistrava il denaro per la flotta. Nè si diedero per vinti sinché inviluppati tra loro nelle private contese, non ebbero avuto l’ultimo tracollo. Tanto allora ricrebbe a favore di Pericle l’opinione d’aver egli preconosciuto i modi per cui la città d’Atene, senza difficoltà alcuna, avrebbe in questa guerra riportato vittoria su gli stessi Peloponnesi. In questa medesima estate i Lacedemoni in numero di mille soldati di grave armatura, sotto la condotta d! Cnemo spartano, andarono con centoventi navi, unitamente agli alleati, contro l’isola di Zacinto, la quale giace dirimpetto ad Elide , i cui abitanti sono coloni degli Achei del Peloponneso , ma alleati degli Ateniesi. Vi presero terra, e ne saccheggiarono gran parte ; ma come gli Zacintii non si arrendevano , ritornarono a casa. Sullo scorcio della medesima estate Aristeo corintio, ed Aneristo e Nicolao e Pratodemo ambasciatori degli Spartani, e Timagora di Tegea, e da semplice privato Poli argivo, nella loro gita in Asia per presentarsi al re (affine di persuaderlo in qualche modo a somministrar denaro, e unire con loro le sue armi ) giungono in Tracia da Sitalce figliolo di Tereo. Era loro intendimento di indurlo, se fosse possibile, a ritirarsi dall’alleanza degli Ateniesi, ed andare con le sue genti a Potidea assediata dall’esercito degli Ateniesi stessi ; e cosi farlo desistere dal portare ad essi soccorso. Volevano anche passare per le sue terre all’altra parte dell’Ellesponto da Famace figlio di Famabazzo (per dove erano indirizzati) il quale gli doveva accompagnare dal re. Ma Learco figliolo di Callimaco, ed Ameniade di Filemone, ambasciatori degli Ateniesi , che casualmente erano presso Sitalce, persuadono il Tiglio di lui Sadoco, ascritto già alla cittadinanza d’Atene, a metterli nelle loro mani, acciò non potessero, tragit tando al re , recar danno ad Atene medesima che era in parte anche sua città. Egli vi consentì ; e mentre si avviavano per la Tracia verso la nave su cui dovevano tragittare l'Ellesponto, prima che vi montassero gli fa arrestare da gente spedita insieme con Lea reo ed Ameniade , la quale aveva ordine di consegnarli : ed avuti che li ebbero li condussero in Atene. Al loro arrivo, gli Ateniesi, per paura che Aristeo, stato anche prima di questi fatti manifestamente l' autore delle cose accadute a Potidea ed in Tracia , non iscappasse e tornasse a far loro danni più grandi, gli ammazzarono tutti in quell’ istesso giorno senza processo , quantunque e’ domandassero di essere uditi, e gli gettarono nei borri; credendo aver dritto di vendicarsi, cosi per render la pariglia ai Lacedemoni, che avevano ucciso e gettato nei borri i mercatanti degli Ateniesi e de’ loro alleati, i quali avevano presi sulle coste del Peloponneso. Ed invero gli Spartani sul principio della guerra trucidavano come nemici , quanti per mare arrestavano collegati con gli x\teniesi, ed anche neutrali. Circa il medesimo tempo , sul cader dell'estate, gli Ambracioti propio, e con essi molti barbari cui avevano sommossi, marciarono contro Argo amfilochio e contro il restante dell’Amfilochia. La loro inimicizia contro gli Argivi ebbe origine di qui. Dopo i fatti troiani Amfiloco figliolo di Auifiarao tornato a casa, non piacendogli lo stato delle cose d’Argo , avea fondato Argo amfilochio ed il rimanente dell’Amfilochia nel seno ambracico, chiamandola Argo, col medesimo nome della sua patria. Fu questa la città principale dell’Amfilochia , ed era abitata dalle famiglie più potenti. Ma questi abitanti molte generazioni dopo stretti da calamità invitarono a far corpo di cittadinanza con loro gli Ambracioti che erano a confine dell’Amfilochia ; ed allora per la prima volta furono dagli Ambracioti, che si erano riuniti di abitazione con loro, avvezzati al greco linguaggio che ora usano ; mentre il resto degli Amiilochii sono barbari. Questi Ambracioti dunque in progresso di tempo cacciano gli Argivi, e ritengono per sè la città : dopo questa espulsione gli Amfilochii si danno agli Acamani, ed entrambi chiamarono in soccorso gli Ateniesi, i quali spedirono loro Formione ammiraglio con trenta navi. all' arrivo di Formione, essendo stata presa d’assalto Argo e gli Ambracioti messi in servitù , vi passarono ad abitare in comune gli Amfilochii e gli Acamani; e fu allora per la prima volta stretta lega tra gli Ateniesi e gli Acarnani. Gli Ambracioti a cagione della schiavitù di quella lor gente avevano da prima preso in odio gli Argivi; e finalmente colgono Vopportunità di guerra per far questa spedizione essi stessi insieme co5 Caoni e pochi altri barbari di quelle circostanze. Andati adunque contro Argo si impadronirono della campagna : ma poiché , dato l'assalto alla città , non venne lor faUo di espugnarla, ritornarono a casa, e popolo per popolo si separarono. Tali sono i fatti accaduti in quest’estate. All’entrare dell’ inverno gli Ateniesi spedirono venti navi intorno al Peloponneso con Formione ammiraglio , il quale, facendo massa in Naupatto , stava a riguardo che nessuna nave entrasse od uscisse da Corinto e dal seno criseo. Spedirono medesimamente altre sei navi nella Caria e nella Licia sotto la condotta di Melesandro , per raccoglier denaro da quei luoghi, e non permettere che i pirati dei Peloponnesi uscendo da quelle parti infestassero le barche da carico, che venivano da Faselideeda Fenice, e dalla terraferma di quei dintorni. Melesandro avanzatosi nella Licia colle genti ateniesi ed alleale che erano sulle navi, vinto in battaglia, e perduta una parte dell' esercito, vi rimase ucciso. nell' istesso inverno i Potideesi non potendo durare nell’assedio, da che le invasioni dei Peloponncsi nell’Attica non valevano punto meglio a distrarre da loro gli Ateniesi, ed era fallito il frumento, e sopravvenuti molti e diversi danni circa le altre grasce, cosicché alcuni si mangiavano tra loro, allora alla perfine trattano della dedizione con Senofonte figliolo di Euripide, con Estiodoro di Aristoclide e Fanomaco di Callimaco generali degli Ateniesi, destinati ad assediarli, i quali vi si accomodarono , tra perchè vedevano gl’ incomodi di lor gente in quel luogo esposto ai rigori dell’ inverno, e perchè consideravano che l' assedio costava già alla Repubblica duemila talenti. Capitolarono adunque a condizione d’uscire essi, i figlioli, le mogli e la guarnigione ausiliaria con un sol vestito, ma le donne con due , portando pur seco una determinata somma di denaro pei bisogni del viaggio : uscirono infatti interposta la fede pubblica , e si rifugiarono nella Calcidia, e dove ognuno potè. Ma in Atene, ove si credeva che avrebber potuto prender Potidea a discrezione , incolpavano i comandanti della capitolazione di quella città fatta senza loro saputa, e vi spedirono a ripopolarla colonia propio di Ateniesi. Tali furono gli avvenimenti di quest’ inverno, e finiva il secondo anno di questa guerra che ha descritta Tucidide. Venuta l’estate i Peloponnesi con gli alleati, piuttostochè assaltar l’Attica , m arciarono contro Potidea, guidati da Archidamo figliolo di Zeusidamo, re dei Lacedemoni , il quale , fermatovi il campo, si disponeva a dare il guasto alla campagna. Ma i Plateesi mandarongli tostamente ambasciatori che parlarono cosi : « Voi, Archidamo e Lacedemoni, portando le armi sul territorio dei Plateesi non operate giustamente, nè come richiede il decoro vostro e quello dei padri dai quali discendete. Imperocché Pausania lacedemone figlio di Cleombroto , liberata la Grecia dal giogo dei Medi insieme con quei Greci che vollero con esso lui affrontare il pencolo della battaglia accaduta qui tra noi, dopo aver sacrificato nel foro di Platea vittime a Giove vindice della libertà , convocati tutti gli alleati , ritornò i Plateesi al possedimento della propria campagna e città per governarsi colle loro leggi ; assicurandoli che nessuno mai senza giusta cagione porterebbe loro la guerra, nè gli ridurrebbe in servitù : altrimenti gli allieti presenti starebbero, quanto potessero , a loro difesa. Tal ricompensa ottenemmo dai padri vostri pel valore e per l’intrepidezza da noi mostrata in quei pericoli. Ma voi adoprate tutto l’opposto ; perocché d’accordo coi Tebani nostri capitali nemici venite per metterci in servitù. Or bene, a nome dei vostri patrii Dei, e di quelli del nostro suolo, testimoni allora dei giuramenti, vi intimiamo di non danneggiare le terre dei Plateesi e non violare la fede : ma anzi permetter loro di vivere nella propria independenza come a buon dritto concesse ad essi Pausania ». Dopo sì grave discorso dei Plateesi, Archidamo di rimando rispose : « Giuste sono le vostre parole, o Plateesi , se pure ad esse rispondano i fatti. Godete pure, come vi concesse Pausania , la vostra independenza ; ma concorrete ora a proteggere la libertà di tutti gli altri, i quali ebbero comuni con voi i pericoli ed i giuramenti, ed i quali ora gemono sotto gli Ateniesi. I a libertà di costoro e degli altri è l’oggetto dei nostri apparecchi e della guerra che abbiamo intrapresa ; nella quale principalmente concorrendo voi terrete il fermo nei giuramenti : se ciò non vi piaccia, almeno, siccome già innanzi vi proponemmo , state tranquilli e neutrali contenti di godere il vostro, ed accogliete come amiche le due parti, senza però mescolarvi nella guerra nè per l’ima nè per l’altra : di questo noi ci tenghiamo appagati ». Così parlò Archidamo. Gli ambasciatori dei Plateesi, sentito questo discorso, rientrarono in città, comunicarono al popolo le proposizioni di lui, e recarono per risposta « non potere eseguire le sue richieste senza il consenso degli Ateniesi presso i quali erano i figlioli e le mogli loro ; temere per tutta intera la citta , poiché, dopo la ritirata dei Peloponnesi, o verrebbero gli Ateniesi e impedirebbero loro di mantener la parola ; o i Tebani, col pretesto di esser compresi negli articoli giurati per cui dovea darsi ricetto alle due parti, tenterebbero di occupar nuovamente la città stessa ». Ma Archidamo per incoraggiarli rispose a queste difficoltà : « Ebbene ; consegnate a noi Lacedemoni la città e le case, dichiarate i confini del territorio, annoverate i vostri alberi e tutto ciò che può annoverarsi. Voi poi andatevene ove meglio credete sin che duri la guerra, passata la quale vi restituiremo tutto. Frattanto noi riterremo in deposito e coltiveremo il terreno, pagandovi un censo che bastar possa al vostro mantenimento ». Sentito ciò quei di Platea rientrarono in città, e fatta deliberazione col popolo risposero ad Archidamo : volevano prima comunicare agli Ateniesi tali richieste, cui non tarderebbero ad eseguire dopo il loro consenso ; e lo pregavano a far tregua in questo mezzo, e a non dare il guasto alla campagna. Pattuì egli tregua per tanti giorni quanti ce ne volevano per far ritorno da Atene, e non guastava le terre. Arrivati gli ambasciatori di Platea presso gli Ateniesi, tennero consiglio con loro e ritornarono con questa risposta alla città : « Cittadini di Platea, gli Ateniesi , da che siamo loro alleati, protestano di non aver mai in verun caso permesso che alcuno ci ingiuriasse, nè ora il permetteranno, ma ci aiuteranno a tutta possa : e pei giuramenti dei padri nostri ci ordinano di non fare rinnovazione di sorta veruna riguardo alla confederazione ». Riferite queste cose per gli ambasciatori , i Plateesi risolvettero di non lasciare gli Ateniesi ; tollerare, se bisognasse , di vedersi guastata anche la campagna ; soffrire cj limito potesse accadere ; non lasciare più uscire veruno della città, e di sulle mura rispondere : esser per loro impossibile di eseguire le richieste dei Lacedemoni. Il re Archidamo, udita la risposta , cominciò tostamente a prendere in testimonio gli Dei e gli Eroi tutelari del luogo, cosi sciamando : « Voi, o Dei ed Eroi tutti, che proteggete il suolo di Platea, siate pienamente testimoni, come essendo essi stati i primi a mancare al giuramento della lega, noi non siamo in principio venuti ingiustamente contro questa terra , in cui i padri nostri, offrendo voti a voi, vinsero i Medi, e la quale rendeste propizia ai Greci per il combattimento : nè ora è ingiusto il nostro procedere se veniamo ai fatti ; perocché, richiesti costoro più volte da noi di oneste condizioni, non otteniamo nulla. Concedete adunque che dell' ingiustizia sia punito chi fu il primo a commetterla, e che ne prendano vendetta coloro che a buon dritto ricorrono all’armi ». Fatte queste preghiere agl’ iddìi disponeva l’esercito in istato di guerra : e primieramente con gli alberi che fece tagliare cinse di palizzata la città , perchè nissuno uscisse : quindi sotto le mura della medesima alzavano un bastione, confidando di averla presto a prendere, per esser tanta gente impiegata in quel lavoro. E per ogni buon riguardo, affinchè la terra del bastione ammottando non si slargasse di troppo, col legname tagliato dal Citerone alzavano su’ due fianchi palancati in cambio di muraglie, tessuti a guisa di graticcio, portandovi legname , sassi, terra e tutto ciò che gettato dentro potesse render compiuta l’opera. Travagliavano al bastione incessantemente settanta giorni ed altrettante notti, spartendosi il lavoro a riprese , talché mentre gli uni portavano i materiali, gli altri prendessero sonno e cibo. Quei Lacedemoni che avevano il comando della gente forestiera di ciascuna città presedevano tutti insieme al lavoro, e ne sollecitavano acremente l’esecuzione. Di che i Plateesi, vedendo crescere il bastione , congegnarono del legname a guisa di muraglia, e lo posero sovra le loro mura a rìmpetto del bastioue che si costruiva, e nello spazio tra legno e legno muravano dei mattoni tratti dalle vicine case che demolivano. Erano i legnami concatenati coi mattoni, perchè non rimanesse debole il crescente edilìzio, che era coperto da cuoia e da pelli, a fine che i lavoranti ed i legni non fossero offesi dagli strali infuocati, ma anzi rimanessero al sicuro. L’altezza del muro aumentava grandemente , ed il bastioue che sorgeva a rincontro non cresceva più lento : il perchè i Plateesi trovarono l’astuzia di traforare le mura nei siti ove il bastione era a contatto per trasportarne la terra dentro la città. Se ne avvidero i Peloponnesi e rinvoltavano della mota in graticci di canna per buttarla nelle crepature del bastioue, la quale, non scorrendo come la terra secca , non si potrebbe sottrarre. I Plateesi impediti per questa via cessarono da ciò, e si volsero a fare dalla parte di città un cunlculo, che, conghietturata la distanza, arrivasse fin sotto il bastione ; e così da capo sottraevano furtivamente la mota. La cosa restò per un pezzo nascosta a quei di fuora ; talché, quanto più buttavano mota tanto meno il bastione cresceva, perchè di sotto era tratto al dichino , ed avvallava contiuovamente nel vuoto che si faceva. Contuttociò i Plateesi temendo, pochi come erano, di non poter pure resistere con questo stratagemma incontro alla moltitudine dei nemici, immaginarono quest’altra cosa. Cessarono di travagliare al gran muro di faccia al bastione ; e su i due estremi di quello, cominciando dal punto ove rimanevano più basse le mura , attaccarono un muro lunato che guardava verso l’interno della città ; acciocché, se fosse espugnato il muro grande % questo facesse fronte, ed i nemici fossero costretti di ergere anche contro questo un nuovo bastione ; cosicché il progredire in dentro costasse loro doppia fatica, e trovassersi più vigorosamente infestati in giro. I Peloponnesi intanto che alzavano il bastione accostavano alla città le macchine ; una delle quali spinta contro quel gran fabbricato di faccia al bastione, ne crollò gran parte, di che impaurirono i Plateesi : altre poi urtando contro varii luoghi delle mura, i Plateesi vi gettano sopra lacci scorsoi per avvilupparle, e romperne il colpo. Avevamo ancora attaccato per le due estremità grosse travi con lunghe catene di ferro; e con due antenne sulle mura, che sporgendo in fuori servivano di leva, le tiravano su trasversalmente ; e dovunque fosse per urlar la macchina nemica, allentando essi e lasciando andare di mano le catene, scendeva impetuosamente la trave, e scapezzava il rostro della macchina. D’allora in poi vedendo i Peloponnesi essere inutili le macchine, ed alzarsi un contrammuro a rincontro del bastione, ebbero per d’impossibile riusc'mento l’espugnazione della città, atteso le difficoltà presenti, e si allestivano a cingerla di muro, giacché il circuito non era grande. Vollero pevò prima tentare, se levandosi il vento, potessero incendiarla, poiché immaginavano ogni maniera di prenderla senza la spesa di un assedio. Portavano adunque de ile fasulla di legne, e di sul bastione incominciarono dal gettarle nel vano di mezzo tra le mura e il bastione stesso , vano che coll' opra di tante mani fu presto ripieno. Corttinovarono poi a gettar legne dentro la città , fino alla distanza che potevano arrivare dall'alto ; poscia con fuoco, zolfo, pece che vi buttarono sopra, arsero le legne; e tale fu l’incendio che nUsuno mai sino allora ne aveva veduto uno simile suscitato a bella posta : perocché è noto che su i monti gli alberi delle selve , arruotati fra loro per i venti, hanno da per sé suscitato fuoco e fiamma. Grande fu quest’ incendio , e pochissimo mancò che i Plateesi, campati dagli altri pericoli, non ne restassero morti; avvegnaché dentro la città non era possibile avvicinarsi per lungo tratto ; e se si fosse aggiunto vento favorevole , come confidavano i ne^ mici, non arebbono potuto scamparla. Ora poi si racconta che cadde copiosa pioggia dal cielo, la quale spense l’incendio, e cosi cessò il pericolo. I Peloponnesi, fallita anche questa prova, lasciata a Platea porzione dell’ esercito, licenziarono il resto , ed assegnato particolarmente il suo luogo ai soldati di ciascuna città , cingevano Potidea di muraglia , dalla parte interna ed esterna della quale rimaneva lo scavo fatto per trarne i mattoni. Verso il sorger d’arturo compiuto interamente il lavoro, lasciaronvi presidio per la metà del muro (guardandosi l’altra metà per iBeozii)e sì ritirarono coir esercito che si dissolvè , ritornando ciascuno alla propria città. I Plateesi poi che avevano di prima mandato ad Atene i fanciulli e le donne, i più vecchi e la turba inutile , sostenevano l' assedio rimasti soltanto quattrocento, con ottanta Ateniesi e cento dieci donne panicocole. Cosi pochi erano in tutti quando si ridussero in istato d’ assedio, nè alcun altro servo o libero era dentro le mura. Tale era lo stato dell’assedio di Potidea. Questa estate medesima, essendo già maturo il grano, mentre i Lacedemoni erano ad oste contro Platea, gli Ateniesi con due mila dei loro di grave armatura c dugento cavalieri, portarono le armi contro i Calcidesi della Tracia e contro i Bottiesi, sotto il comando di Senofonte figliolo d'Euripide con due colleghi. Arrivati sotto Spartolo città della Bottia diedero il guasto al grano, e credevano , per le pratiche che tenevano con alcuni cittadini, che la città si renderebbe. Ma qnei della fazione contraria avevano già spedito alcuni chiedendo soccorso ad Olinto , donde erano venuti soldati di grave armatura ed altra gente per guarnigione. Questa fece una sortita da Spartolo; e gli Ateniesi dovettero ordinarsi in battaglia propio sotto la città. La soldatesca grave dei Calcidesi con alcuni ausiliarii resta vinta dagli Ateniesi, e si ritira in Spartolo : ma la cavalleria e la truppa leggera, sostenuta anche da alcuni pochi armati di rotella venuti dal paese detto Crasi, superò la cavalleria e la truppa leggera degli Ateniesi. Era appena finita la battaglia , quand’ecco sopraggiugnere in rinforzo da Olinto altri armati di rotella ; cui tosto che le genti di Spartolo ebber veduti, preso coraggio, non solo per questa aggiunta di soldatesca, ma anche perchè non avevano avuta parte alla precedente disfatta, si unirono con la cavalleria calcidica e con cotesto rinforzo, e nuovamente investono gli Ateniesi, che si ritirano presso due squadre da loro lasciate vicino alle bagaglie. Quando gli Ateniesi venivano innanzi, essi cedevano ; ma quando e’ si ritiravano, gl' incalzavano e li saettavano. La cavalleria calcidica, accorrendo ovunque ne vedesse il bisogno, si avventava sul nemico , e divenuta lo spavento principale degli Ateniesi gli mise in fuga e gli rincorse per buon tratto. Gli Ateniesi si ricovrano in Potidea, e riavuti poi i cadaveri con salvocondotto, tornano ad Atene coll’avanzo dell’esercito. Morirono in questo fatto quattrocentotrenta Ateniesi con tutti i comandanti. I Calcidesi ed i Bottiesi ersero il trofeo, e ripresi i cadaveri dei loro si separarono per tornare ciascuno alla sua città. Non molto dopo, nella medesima estate , gli Amhracioti ed i Caoni desiderosi di soggiogare tutta l’Acarnania e staccarla dagli Ateniesi, confortano i Lacedemoni ad allestire una flotta raccolta da’ paesi alleati, e a spedire mille soldati di grave armatura neU’Acamania. Per questo modo , dicevano, concorrendo con loro ad assaltarla per mare e per terra ad un tempo stesso , e non potendo gli Acarnani di sulle coste unirsi a soccorso degli altri, vincerebbero facilmente l’Acamnnia, e s' impadronirebbero anche di Zacinto e di Cefallene : cosi gli Ateniesi non potrebbero con tanta sicurezza correr colle navi attorno- al Peloponneso, e di più vi sarebbe speranza di prendere? Naupatto. Udirono le loro richieste i Lacedemoni, e tosto su poche navi spediscono la soldatesca grave con Cnemo che era tuttora ammiraglio. Mandavano altresì avviso in ¿nro a tutti gli alleati di trovarsi al più presto possibile a Leucqde con quelle navi che avessero in ordine. I Corintli sovra tutti erano in quest’impresa solleciti per gli Ambracioti, perché loro coloni. La ilotta di Corinto, di Sidone e degli altri luoghi di quei dintorni si andava allestendo, intanto che quella di Lcucadc, di Anattorio e di Ambraeia gli aspettava a Lcucadc, ove ella era di prima arrivata. Ma Cnemo co’ suoi mille di grave armatura traversato il mare, senza ne avesse seniore Formionc che comandava le venti navi attiche di presidio sulle coste di Naupatto, ordinava immediatamente una spedizione per terra. Erano sotto i suoi ordini (oltre mille Peloponnesi co’quali era venuto) gli Ambracioti, i Leucadii, gli Anattorii tra i Greci : tra i barbari, mille Caoni gente senza re , guidati con annual comando da Fozio e Nicànore discendenti dal lignaggio sortito a quella carica ; e con essi marciavano anro i Tesproti, gente pur senza re. Sabilinto , tutore del re Taripo ancor giovinetto, conduceva i Molossi e gli Aostani; Oredo i Paravei dei quali era re, e con essi si unirono mille Orestii guidati dallo stesso Oredo per consci' timento d’Antioco re loro; e Perdicca, senza la saputa degli Ateniesi, vi spedì mille Macedoni che arrivaron più tardi. Con questo esercito, non aspettata la flotta da Corinto , erasi Cnemo messo in cammino ; e marciando per il territorio argivo, e saccheggiato il borgo di Limnea sprovveduto di mura, giungono a Strato città la più considerabile dell'Acarnania ; persuasi che prendendo questa la prima , anche gli altri luoghi si sarebbero facilmente resi. Gli Acamani sentendo che già era entrato nelle loro terre un copioso esercito, e che dalla parte di mare erano per presentarsi i nemici colla flotta, piuttosto clic collegarsi a difesa, guardavano ognuno le terre loro : spedirono bensì a Formione ricercandolo di soccorso ; ed ebbero in risposta, essergli impossibile abbandonar Naupatto, aspettandosi ad ogn’ ora che la flotta nemica uscisse di Corinto. I Peloponnesi poi e gli alleali, divise in tre squadre le loro genti, procedevano verso la città degli Stratii per campeggiarla da vicino , risoluti di venire ai fatti se non giovassero le parole. Marciavano innanzi stando nel centro i Caoni con gli altri barbari , a destra i Leucadii e gli Anallorii con le masnade che avevano seco , a sinistra Cnemo, i Peloponnesi e gli Ambracioti ; ma queste tre squadre erano a gran distanza tra loro, e talora non si scorgevano scambievolmente. I Greci procedevano bene ordinati e guardinghi sin che trovassero un vantaggioso alloggiamento : all’opposto i Caoni confidando solo in sè stessi, perchè erano avuti in concetto di soldati agguerritissimi dalla gente di quelle contrade , non si fermarono a prendere alloggiamento, ma si avanzavano impetuosamente con gli altri barbari, e reputavano d’avere a prendere la città di punto in bianco , ed ascrivere a sè soli l’impresa. Informati gli Stratii che essi proseguivano il cammino, discorsero tra sè , che ove vincessero costoro divisi dagli altri, con minor baldanza sarebbero poi venuti innanzi i Greci : il perchè, innanzi giugnessero, tesero imboscate nelle vicinanze della città ; e come li videro presso, usciti dalle mura e dagli aguati corrono ad affrontarli : di che impauriti, molti dei Caoni restano uccisi ; e gli altri barbari che li videro piegare disordinaronsi e dieder volta. Nissuna delle due squadre greche seppe del combattimento , per essersi costoro dilungati, e aver fatto credere d’avacciarsi per trovar buono alloggiamento. Quando però si videro cotesti barbari fuggitivi quasi addosso , dieder loro ricetto ; e riuniti i due campi si trattennero tutta la giornata. E quantunque gli Stratii, mancanti ancora del rinforzo che doveva arrivare dal resto degli Accamani, non venissero con loro alle mani (avvegnaché stimassero non doversi arrischiare senza i soldati gravi) pure gli avevano ridotti in gran dubbiezza dell’ animo col loro trar di fionda da lontano , atteso che gli Acarnani sono tenuti per ottimi frombolieri. Ma fattosi notte, Cnemo ritirò prestamente l’esercito sul fiume Anapo distante ottanta stadi da Strato; riprese il giorno seguente i cadaveri per salvocondotto, e venuti a raggiugnerlo gli Eniadi per l' amicizia avevano seco, si ritira presso di loro innanzi che venissero agli Acarnani i rinforzi ; e di là ciascuno ritornò alla sua patria. Gli Stratii ersero trofeo per il combattimento contro i barbari. La flotta poi dei Corintii e degli altri alleati che uscendo del golfo di Crisa doveva congiugnersi con Cnemo , acciocché gli Acarnani di dentro terra non accorressero in aiuto , non lo raggiunse ; anzi circa i medesimi giorni della zuffa accaduta a Strato , fu obbligata a naval combattimento conFormione e con le venti navi che erano di presidio aNaupatto. Stava Formione osservando mentre ei costeggiavano per uscir fuori del golfo , col fine di assalirli al largo : ed i Corintii e gli alleati navigavano per alla volta delPAcamania, non già preparati a naval combattimento, ma più presto all’uso delle navi che portano truppa da sbarco; non si potendo mai aspettare che gli Ateniesi con le venti navi ardirebbero di appiccar battaglia contro le loro qiiarantasctte» Ma poiché avanzandosi marina marina , videro gli Ateniesi costeggiare il lato opposto ; e poiché , tragittando da Patra dell’Acaia verso la terraferma dirimpetto alTAcarnania , gli osservarono indirizzarsi contro di loro, movendo da Calcide e dal fiume Eveno (ove gli avevano scoperti quantunque approdati furtivamente) allora trovansi astretti a combattere in mezzo allo stretto. Vi erano i capitani di ciascuna città che disponevansi al combattimento : Macaone, Isocrate ed Agatarchide conducevano i Corintii. Schieraronsi i Peloponnesi formando un cerchio delle navi, il più grande potevano , colle prue volte in fuori e le poppe in dentro , per impedire al nemico di rompere l' ordinanza della loro flotta. Pongono in mezzo le piccole barche che andavano di conserva, e cinque navi delle più snelle ; acciocché avesser breve spazio a correre per uscir fuori del cerchio, e trovarsi pronte ovunque il nemico gli investisse. Gli Ateniesi ordinate le loro navi una dopo l’altra , volteggiavano attorno all’ armata nemica, e ne ristringevano il cerchio scorrendo sempre rasente , ed inducendo credenza nei nemici che or ora gli assalirebbero, l onmone però aveva commesso loro di non investirli prima che ne desse egli il segnale : imperocché sperava che l’ordinanza della flotta nemica, somigliante a quella di fanteria per terra , non reggerebbe ; ma le navi urterebbonsi tra loro , e le barche cagionerebbero disordine. Sperava inoltre che al soffiar del vento dal golfo (ciò che soleva accader sull’ aurora , e cui aspettando teneva in giro le navi) il nemico non arebbe avuto un momento di posa ; che allora sarebbe il tempo più opportuno ad attaccar battaglia ; sebbene credeva essere in sua potestà farlo quando che volesse , perchè più spedite erano le sue navi. Ma già levatosi il vento e le navi nemiche essendo «tate ristrette in più piccol cerchio , erano in iscompiglio , non solo pel vento stesso, ma ancora per le barche di dentro che stavano loro addosso , talché una cozzava nell’ altra e si pigneano coi remi ; e tra per gli urli e per le villanie onde mordevansi scambievolmente le ciurme nel ripararsi, non più gli ordini, non più i cornili intendevano. In tal tramazzo appunto dà Formione il segnale : gli Ateniesi al primo assalto affondano una nave capitana, dipoi ovunque si avanzassero, altre ne rovinavano ; e ridussero i nemici a tale che in quel tram« busto nissun di loro volgevasi a vigorosamente resistere, ma fuggivano a Patra e a Dime dell’Acaia. Gli Ateniesi avendoli incalzati presero dodici navi, uccisero la maggior parte delle ciurme, quindi navicarono a Molicrio : alzalo poscia trofeo a Rio, e consacrata una nave a Nettuno, tornarono a Naupatie. Medesimamente i Peloponnesi col resto delle navi proseguirono subito il loro corso da Dime e Palra fino a Gliene arsenale degli Elei f ove da Leucade, dopo la battaglia degli Stratii, arriva anche Cnemo colle navi di là, che dovevano riunirsi con queste. I Lacedemoni intanto spediscono Timocrate, Bra-6lda e Licofrone per consiglieri a Cnemo nel governo della flotta, con ordine di procurar miglior esito ad un secondo combattimento navale, e non lasciarsi da picciol numero di navi toglier Fuso del mare. Conclosslachè quella disfatta pareva loro molto strana (tanto più perchè era la prima volta che avevano sperimentato combattimento navale), e l’attribuivano non tanto alla minoranza della loro flotta, quanto a non so qual poco ardire del combattenti ; nè bilanciavano l’antica perizia degli Ateniesi col loro re-.cente esercitamento. Però adirati spedirono coloro, i quali giunti colà d’accordo con Cnemo con avviso circolare intimavano a ciascuna città di dar le navi, e racconciavano quelle di prima disposti di venire ad una seconda battaglia« Goode Forinione anch’egli dal canto suo manda agli Ateniesi gente ad annunziare i preparamenti dei Lacedemoni, e ragguagliarli della riportata vittoria; ed instava che gli spedissero sollecitamente più navi potevano, perchè ogni giorno v’ era da aspettarsi di dover combattere per mare. Essi ne mandano venti, ordinando però al capitano che le conduceva di arrivar prima a Creta : perchè Nicia di Gortinia, cretese, pubblico ospite degli Ateniesi, li confortava ad andare colla flotta a Cidonia, assicurandoli che ridurrebbero in potestà loro quella città nemica. Brigavasi egli di ciò per far cosa grata ai Policniti confinanti coi Cidoniati. Il capitano adunque, tolte seco le navi, andò a Creta, ed insieme co1 Policniti saccheggiò le terre dei Cidoniati. I venti poi e la difficoltà di riprender mare lo costrinsero a trattenersi non poco tempo. Intanto che gli Ateniesi erano ritenuti a Creta , i Peloponnesi che stanziavano a Cillene apparecchiati per la battaglia di mare, si spinsero colla flotta sino a Palermo dell’Acaia, ove dalla parte di terra erano già venute in rinforzo le genti del Peloponneso. Similmente Formione passò da Naupatto a Rio di Molicro, e al di fuori di questo promontorio si tenne sull’ancora con venti navi, quelle stesse con le quali aveva combattuto. Era questo Rio amico agli Ateniesi, a differenza dell’altro nel Peloponneso, situato rimpetto al primo, tra loro distanti circa settanta stadii di mare; ed è questa la bocca del seno di Crisa. Adunque i Peloponnesi, visti gli Ateniesi, presero stazione con settantasette navi presso questo Rio dell’Acaia, non molto distante da Palermo, ove era la loro fanteria. Per sei o sette giorni stettero entrambi alle vedette , intesi a prepararsi pel combattimento che disponevano di fare. Discorrevano i Peloponnesi non esser da uscire al largo fuori dei due Rii, temendo ancora della passata sconfitta ; gli Ateniesi di non dovere ingolfarsi nello stretto, giudicando che la battaglia in luogo angusto sarebbe in vantaggio dei Peloponnesi. Cnemo poi, Brastda e gli altri comandanti dei Peloponnesi volendo precipitar gl' indugi ed attaccar la zuffa innanzi che da Atene venisse nuovo aiuto, adunarono da prima i soldati ; e poiché gli vedevano per la maggior parte paurosi ed inviliti, attesa la precedente sconfitta, presero a rincorarli e parlarono così : « Valorosi Peloponnesi, la passata naval battaglia, se a cagione di quella avvi chi teme della futura, non porge giusto argomento per intimorirvi, ove sappiate come ella non ebbe completo apparecchio, e che la nostra corsa avea per oggetto non combattimento marittimo, ma piuttosto trasporto di truppe. La fortuita stessa ci fu in molti casi contraria, e forse l’inesperienza (essendo quello il primo combattimento per mare) causò il nostro danno, cosicché non fu per viltà che restammo vinti. Nè quel vigor d’animo a cui vincere non valse la forza, e che trova in sé stesso la sua discolpa, dee punto indebolirsi per le conseguenze di sinistra fortuna : anzi tutto che possa addivenire che restiuo gli uomini sconcertati pel concorso di casuali accidenti, vuoisi ciò non pertanto reputare che, quanto all1 animo, sieno gli stessi valorosi e inalterabili ; e che serbando in petto cuor generoso, non piglierebbono a pretesto l’inesperienza per aonestar talvolta la loro codardia. Ma voi non siete di tanto inferiori nell’esperienza, quanto per ardimento superiori. La pratica di costoro, che principalmente vi spaventa, se va unita all’ intrepidezza ricorderà loro, anche in mezzo al pericolo , di eseguire i precetti appresi ; ma senza intrepidezza nissun’ arte è buona contro i pericoli ; perocché la paura perturba la memoria , e l’arte senza fortezza a nulla giova. Contrapponete adunque alla loro maggior pratica il vostro maggiore ardimento ; al timore per la sconfitta sofferta la considerazione di non essere stati allora ben preparati; e riflcHtete die adesso voi avete il disopra, non solo pel maggior numero delle navi, ma ancora perchè venite a battaglia lunghesso una piaggia vostra, ove è anche pronta per voi la soldatesca di terra. Ora la vittoria è ordinariamente dei più e dei meglio preparati i ond’ è che non abbiamo pnre un motivo giusto da temere della sconfitta : anzi gli sbpgli stessi da noi prima commessi ci serviranno di nuovo ammaestramento. Su via adunque, nocchieri e marinari, fate ognuno il debito vostro, non abbandonando il posto assegnato a ciascuno , e noi sapremo non meno dei passati capitani prepararvi opportuna l’affrontata, nè lasceremo a chicchessia scusa ad esser codardo : o se pur vi sia chi il voglia, sarà punito colla dovuta pena, dove i valorosi avranno il premio che si compete al valore »» Con queste parole i capitani inanimivano i Pelopoimesi. E Formione insospettito anch' egli dello sbigottimento dei soldati, ed avvistosi che nei loro cerchi mostravansi timorosi, per la moltitudine delle navi nemiche , prese consiglio di convocarli per rincorarli con avvertimenti confacevoli all’occasione. Teneva già anche di prima preparati i loro animi, dicendo continovamente non esservi moltitudine di navi per grande che fosse, alla quale, venendo contro di loro , e’ non potessero resistere. Ed i soldati stessi da molto tempo avevano di sè concepita questa dignitosa opinione che, Ateniesi com’erano, non cederebbero a quantunque gran numero di navi peloponnesie. Nondimeno, osservandoli allora scoraggiati al ragguardamento del nemico, voleva rammentar loro avessero coraggio : il perchè, radunati gli Ateniesi, parlò in questa sentenza. « Al vedervi, o prodi soldati, impauriti per la moltitudine dei nemici, vi ho qua radunati ; perchè non credo del vostro decoro lo sbigottire per cose non punto formidabili. E primieramente hanno costoro apparecchialo gran numero di navi, non contenti di forze eguali alle nostre, appunto perché sono stati già vinti, e da sè stessi si riconoscono inferiori a noi. In secondo luogo , quella baldanza, alla quale principalmente affidati ci vengono incontro , come se di loro soltanto fosse proprio Vesser valorosi, non da altro procede che dalla pratica delle battaglie terrestri, ove ordinariamente sono vincitori ; e però credono di poter far lo stesso anche in quelle di mare. Ma tal ragione di imbaldanzire se l' hanno essi in quelFaltro genere di combattimento, molto più a buon dritto l’avremo ora noi. Imperocché in generosità ei non ci avanzan punto, laddove siamo entrambi più arditi in ciò, in che siamo più esperimentati. Inoltre i Lacedemoni, venendo alla testa degli alleati per ricuperare il proprio decoro, ne conducono al cimento la maggior parte di mala voglia ; avvegnaché, se cosi non fosse, dopo quella grande sconfitta non sarebbono essi venuti mai ad un secondo naval combattimento. Non abbiate no dunque timore della loro audacia ; anzi voi mettete in loro più grande e più certa paura, sì perchè gli avete già vinti, sì perchè pensano che or non vi opporreste loro , se non aveste in animo di fare qualche stupenda prova. In fatti di due eserciti a fronte quello che, come il loro è più numeroso , viene all’ assalto fidando più nella forza che nel consiglio : ma quello che è molto inferiore di numero, e viene non astretto alla pugna, resiste al nemico confidando solo nella grandezza del proprio animo. Le quali cose essi considerando, temono più del nostro straordinario procedere, che non farebbono d’apparecchio proporzionevole al loro. Molli eserciti sono già stati battuti da minor numero per inesperienza e talora per codardia ; noi però da tali difetti siamo immuni : nè per quauto starà in me, attaccherò la battaglia nel golfo, anzi neppure vi entrerò. Gonciossiach è vedo, contro molte navi mal pratiche non esser favorevole la ristrettezza del luogo per le poche, che nei loro movimenti han pratica e più speditezza al corso; perchè non avendosi da lungi il prospetto del nemico, niun potrebbe prender le dovute misure per ispignersi contro la nave contraria ed assalirla, nè, messo alle strette, aver modo di ritirarsi all’occasione. Nè possibil sarebbe rompere e traversare le file nemiche, o dare indietro girando di bordo ; operazioni tutte proprie delle navi più spedite : ma farebbe allor di mestieri ridurre la battaglia di mare a battaglia di terra, lo che gioverebbe al maggior numero di navi. Ora io, per quanto sta in me , provvederò a tutto questo , e voi tenetevi fermi in buona ordinanza sulle navi , ed eseguite prontamente gli ordini che riceverete, tanto più che ad ogni momento possiam venire all'affronto. Nell’atto stesso poi della pugna badate sovrattutto al buon ordine ed al silenzio (ciò che giova in assai operazioni di guerra, ma principalmente nei combattimenti navali); e rispingete costoro in maniera che risponda alle passate imprese. Il cimento è per voi rilevantissimo, trattandosi, o di torre ai Peloponnesi ogni speranza di aver flotta, o di rendere agli Ateniesi più imminente il timore di perdere la superiorità del mare. Vi rammento in ultimo che già su la maggior parte dei nemici riportaste vittoria : ora soldati una volta vinti non possono serbare lo stesso animo nel? incontro degli stessi pericoli ». Con queste parole anche Formione rincorava la sua gente. Ma i Peloponnesi, al vedere che gli Ateniesi non venivano verso loro nel golfo, e dove è più angusto , volendo condurveli dentro a loro dispetto, sul far dell’aurora presero il largo, £ ordinate le navi con quattro di fronte si avviarono nell’interno del golfo verso il loro territorio. Precedeva lala destra con lo stesso ordine che aveva tenuto sta ndo sull’ancora : avevano però in cotest’ala collocato venti delle navi più spedite, aflfmchè se mai Formione, credendoli dirizzati contro di Naupatto , si avviasse anch’egli colà per soccorrerlo, la flotta Ateniese non potesse spingersi oltre quell9 ala destra, e scansare coai d' essere investila da loro ; anzi quelle venti navi dovesser chiuderla in mezzo, ripiegandosi sopra di lei. Come Formione vide i nemici partire impauri, conforme ei si aspettavano , per Naupatto rimasto senza presidio, e fatte suo malgrado e frettolosamente montar le navi alla sua gente, scorreva lungo la costa, su la quale lo seguitava la fanteria dei Messeni pronta a soccorrerlo. I Peloponnesi visto gli Ateniesi avanzarsi con le navi schierate una dopo Tal« tra, ed ornai ingolfati (ciò che appunto bramavano), allora fatto un solo segnale voltarono improvvisamente di bordo, e con la maggior celerità che ognuno poteva vogavano di fronte addosso agli Ateuiesi. Speravano essi di poter prendere tutte le navi, ma undici di esse che erano innanzi all'altra, preso il largo, si sottraggono all’ala dei Poloponnesi, e al ripiegarsi su loro delle venti navi. Raggiungono bensì il restante, e spintele a terra mentre fuggivano, le fracassarono, ed uccisero tutta la gente ateniese che non si era salvata a nuoto. Alcune altre restate vuote le legavano alle loro e le rimorchiavano, ed una ne presero entrovi la ciurma. Allora i Messeni accorsero in aiuto, ed entrando armati nel mare salirono sopra alcune, e combattendo di su i banchi, mentre venivano rimorchiate , le riebbero. I Peloponnesi adunque erano da questa parte vincitori, ed avevano rovinate le navi ateniesi. In questo le loro venti navi poste sull'ala destra correvano dietro alle undici ateniesi, che sottrattesi all’ incalzar dei nemici eransi tirate al largo, ed eccetto una , furono le altre in tempo a ricovrarsi a Naupatto. Quinci fermatesi in faccia al tempio d’Apollo colle prue rivolte ia fuori si preparavano a ributtarli, s’ei vogassero a terra contro di loro. I Peloponnesi che vi giunsero dopo, navigavano cantando il peana come già vincitori ; e una nave leucadia, che sola vogava molto innanzi airallre, dava la caccia ad una ateniese rimasta indietro. Era casualmente ferma sull’ancora in distanza dal lido uua barca mercantile, presso la quale arriva la nave ateniese prima della leucadia , gira di bordo intorno a lei, e riviene ad urtar nel mezzo quella che la inseguiva, e la sommerge. Codesto accideute inaspettato e strano riempie di spavento i Peloponnesi che altresì ebri della vittoria rincorrevano le navi nemiche alla rinfusa; tal che alcune delle navi loro, per aspettare che si riunissero le altre più, abbassarono i remi e fermarono il corso ; cosa inopportuna nell’occasione che il nemico aveva breve spazio a trascorrere per lanciarsi contro di loro : altre mal pratiche dei luoglii urtarono in secco. A tal vista ritornò negli Ateniesi il coraggio, e con unanime grido di eccitamento corsero sopra i Peloponnesi i quali in mezzo al disordine causato dai precedenti sbagli, per breve ora ressero, e poi fuggirono verso Palermo d'onde erano parliti. Gli Ateniesi incalzandogli tolsero loro sei navi che avevano più vicine, riebbero quelle state da prima rovinate su la casta e rimorchiate, ed uccisero parte delle ciurme, parte fecero prigioni. Timocrate lacedemone che era su la nave leucadia la quale andò a fondo vicino alla barca mercantile, quando ella si perdeva si scan nò, e fu poi sbalzalo nel porto dei Naupalli. Ritornali gli Ateniesi al silo da cui partitisi ottennero quesla vi noria, vi ersero trofeo, ricuperarono i cadaveri ed i rollami delle navi che erano vicini alla loro costa, e con salvocondotto restituirono i loro ai nemici. Parimente i Peloponnesi at-» tribuendo a se la vittoria, ersero trofeo a Rio dell’Acaia per la sconfitta in cui spezzarono au la costa le navi ateniesi ; e quella sola che avevano presa la consacrarono presso al trofeo. Dopo di ciò temendo del soccorso che si aspettava da Atene, sull’imbrunir del giorno, tutti, eccello i Leucadii si ridussero nel golfo di Crisa ed a Corinto. Gli Ateniesi che con le venti navi dovevano da Creta raggiunger Formione prima della battaglia navale, arrivarono a Naupatto poco dopo la ritirata delle navi dei Peloponnesi ; e finiva l’estate. Cnemo poi, Brasida e gli altri capitani dei PeIoponnesi, prima di licenziar la flotta che si era ritirala a Corinto e nel seno di Crisa, cominciando l' inverno , vollero , secondo che erano stati istruiti dai Megaresi, fare un tentativo contro il Pireo porto degli Ateniesi che era senza presidio e senza sbarre ; nè ciò rechi meraviglia , atteso la gran superiorità degli Ateniesi nella marina. Risolvettero adunque prendendo ciascuno un remo col suo scanno e più-macciolo, drandare per la via di terra da Corinto al mare che guarda Atene ; ed arrivati prestamente a Megara varare da Nisea loro arsenale le quaranta navi che vi erano, e navigare direttamente contro il Pireo, non vi essendo navi a guardarlo. Gli Ateniesi non si aspettavano punto di esser cosi all’improvviso assaliti dalla flotta dei nemici, poiché stimavano eh’ e’ non avrebbero osato di farlo neanche scopertamente e con tutto l’agio, e che, se mai ciò corresse loro nettammo, non sarebbe senza che lo presentissero. Appena risoluto ciò si misero in cammino. Arrivarono di notte a Megara, e varate in mare da Nisea le navi, non andarono più, come avevano disposto, contro al Pireo, impauriti dal pericolo, ed impediti anche, come si racconta , da non so qual vento ; ma bensì contro al promontorio di Salamina che guarda Megara , ove era una fortezza e tre navi di guarnigione, per impedire che nulla entrasse in Megara od uscisse. Diedero l’assalto alla fortezza, e menaron via le tre navi abbandonate dalla ciurma, ed assaltando inaspettatamente il resto di Salamina, presero a saccheggiarla. Ma i Salamini alzarono i segnali di fuoco nunziatori del nemico, verso Atene, ove non fu mai sbigottimento maggiore di questo durante la guerra. Imperocché quei della città si immaginavano i nemici già entrati nel Pireo, quelli del Pireo già espugnata Salamina, e che i nemici dal vedere al non vedere entrerebbero da loro : lo che sarebbe senza difficoltà accaduto, se avesser voluto precipitar gl' indugi, nè il vento arebbe potuto impedirneli. Sul far del giorno gli Ateniesi accorsi in buiima al Pireo vararono le navi ; e salitivi sopra in fretta e alla rinfusa , andarono con esse a Salamina, e misero la fanteria a guardia del Pireo. Come i Peloponnesi ebbero sentore di questo rinforzo, corsero gran parte di Salamina, prendendo uomini, bottino e le tre navi della fortezza di Budoro : quindi navigarono speditamente a Nisea, giacché temevano anche delle proprie navi, che varate dopo molto tempo non tenevano punto; ed arrivati a Megara ritornarono per terra a Corinto. Gli Ateniesi non avendoli trovati più intorno a Salamina, tornarono indietro con la flotta ; e dopo questo avvenimento più accuratamente guardavano il Pireo eoi tenerne serrati i porti, e con ogni altra sorta di diligenza. Circa i medesimi tempi, sul cominciare di quest' inverno, Sitalce odrisio figliolo diTereo, re dei Traci, mosse le armi contro Perdicca figliolo di Alessandro, re di Macedonia, e contro i Calcidesi della Tracia, per causa di due promesse, una delle quali voleva gli fosse attenuta, P altra attenere egli stesso. È da sapere che Perdicca trovandosi alle strette sul principio della guerra aveva fatto a Sitalce delle promissioni, solo che lo riamicasse con gli Ateniesi, e non riconducesse in patria (per farlo re) Fi« lippo suo fratello che gli era pure nemico : ora però non eseguiva quello che aveva promesso. Sitalce poi quanto a sè aveva convenuto, quando fece alleanza con gli Ateniesi, di por fine alla guerra calcici»ca nella Tracia. Per queste due promesse adunque faceva la spedizione ; e conduceva seco Aminta figliolo di Filippo per porlo sul trono dei Macedoni, Agnone come capitano, ed anche gli ambasciatori ateniesi che a quest’ oggetto si trovavano presso di lui ; conciossiachè gli Ateniesi pure avevano impegnato la parola di concorrere alla guerra contro i Calcidesi con flotta e buon numero di genti. Partito adunque dagli Odrisii sommuove prima tutti i Traci infra il monte Emo e Rodope, su’ quali egli imperava sino al mare, dal Ponto Eussino all’ Ellesponto ; poi i Geti al di là del monte Emo, e tutte le altre parti abitate di qua dal fiume Istro più verso il mare detto Ponto Eussino. I Geti e gli altri di questi luoghi confinano con gli Sciti, usano la medesima armatura, e son tutti arcieri a cavallo. Invitava ancora molti dei Traci montanari che sono liberi, armati di coltella ; e chiamansi Dii , ed abitano la maggior parte sul Rodope ; dei quali alcuni ne guadagnava col soldo, altri lo seguivano volontari. Sollecitava ancora gli Agriani ed i Leei, e gli altri popoli della Peonia soggetti al suo impero. Questi erano gli ultimi del suo dominio che si stendeva sino ai Graei e Leei della Peonia t e sino al fiume Strimone, che dal monte Scomio'scorre a traverso dei Graei e dei Leei, ove aveva confine il suo territorio dalla parte che guarda i Peonii, i quali di lì in poi sono liberi. Dalla parte dei Triballi pure liberi lo confinavano i Treri ed i Tilatei. Abitano costoro a settentrione del monte Scomio, ed a ponente si stendono sino al fiume Oscio che nasce nel monte stesso, come pure il Nesto e l’Ebro. Cotesto monte è disabitato, vasto ed attaccato a Rodope. L’impero degli Odrisii, quanto alla sua grandezza , dalla parte che arriva sino al mare, si stende dalla città di Abdera al Ponto Eussino fin dove imbocca il fiume taro. Il giro di questa costa per il cammino più corto, se il vento soffi continovamente da poppa, con una nave tonda si fa in quattro giorni ed altrettante notti. Per terra poi la via più corta da Abdera sino all’Istro un uomo spedito la fornisce in undici giornate : tanta è la sua estensione su la parte di mare. Ma verso terraferma da Bizanzio fino ai Leei e allo Strimone ( imperocché in questa linea è la maggior distanza del mare da terra ) la gita può compirsi da un uomo spedito in tredici giornate. Il tributo di tutto il paese barbaro e delle città greche, secondo che lo han pagato sotto Seute ( che succeduto nel regno a Sitalce lo rese gravissimo) montava alla somma di circa quattrocento talenti d’argento, che si pagavano in oro ed argento. Nè di minor valore erano i doni i quali non al re solamente, ma ai magnati degli Odrisii e potenti presso lui venivano offerti, che in oro e che in argento, senza contare le stoffe a opera e lisce ed altri mobili. Poiché, al contrario di quel che si pratica nel regno di Persia , aveano cotesti signori messa l’usanza, che dura anche presso gli altri Traci, di pigliare piuttosto che dare ; ed era maggior vergogna per chi richiesto non dava, che per chi chiedendo non otteneva. Cotale usanza per la potenza di quelli durò lungo tempo ; nè era possibile di concluder nulla senza donativi, il perchè il regno venne a gran potenza, sendo che di quei di Europa tra il seno ionico e il Ponto Eussino, esso fu il più considerabile pel provento di denaro e per ogni altra sorta di opulenza. Ma nel valor guerriero e nella moltitudine delle soldatesche fu di gran lunga inferiore a quel degli Sciti ; al quale non che sieno da agguagliare le na^ ¿ioni d’Europa, ma neanche in Asia avvi nazione, che da solo a solo possa resistere contro tutti gli Sciti d'accordo. iNondimeno in accorgimento e prudenza per le altre cose concernenti la vita , non sono da mettere alla pari con le altre nazioni. Sitalce adunque re di sì vasto paese preparava il suo esercito ; e poiché ebbe ordinato il tutto, mosso il campo si incamminava verso la Macedonia, passando prima pe’ suoi stati, e dipoi per Cercina monte disabitato, conterminale dei Sinti e de9 Peonii, tenendo la strada da lui stesso aperta col taglio della foresta quando portò la guerra contro i Peonii. Da Odrise marciando pel monte avevano a destra i Peonii, a sinistra i Sinti e i Maidi ; e passato che l' ebbero giunsero a Dobero città della Peonia. Nel cammino non soffrì perdita veruna dell’esercito, salvo che pochi per malattia, anzi lo ebbe accresciuto; imperocché molti di quei Traci liberi lo seguitarono, benché non chiamati, per avidità di bottino : talché si dice P intero esercito essere stato non meno di cento cinquantamila, per la maggior parte fanti , ed il terzo cavalli. Il grosso della cavalleria lo somministravano principalmente gli Od risii, e con esso loro i Geti. Della fanteria i più agguerriti erano quei che portavano coltella, gente liberar scesa da Rodope. Il resto poi della turba che li seguita era un mescuglio di ogni sorta di gente, formidabile più che altro pel suo gran numero. Facevano pertanto la massa a Dobero, e disponevano di assaltare dalla parte montuosa la Macedonia inferiore , di cui era padrone Perdicca ; poiché sono compresi tra' Macedoni anche i Lincesti e gli Elimioti ed altri popoli più dilungi dal mare, i quali sebbene confederati de’ Macedoni e loro soggetti, pure hanno ognuno il suo regno. Ma quella che di presente si chiama Macedonia marittima l' acquistarono e vi regnarono i primi Alessandro padre di Perdicca e i suoi maggiori discendenti da Temene, che ab antico venivano da Argo in questo modo. Primieramente superarono in battaglia e scacciarono dalla Pieria i Pierii, che poi presero stanza in Fagrete sotto il monte Pangeo al di là dello Strimone, ed in altri luoghi (onde ancora si chiama seno pierico quella terra che dalle falde del Pangeo si stende alla marina), quindi dalla Bottia iBottiesi che ora abitano ai confini dei Calcidesi. Acquistarono ancora luugo il fiume Axio una lingua di terra della Peonia, che dallalto della montagna va sino a Pella ed al mare ; e di là dall’Axio fino allo Strimone posseggono quella che si chiama Migdonia, d’onde scacciarono gli Edoni. Cacciarono inoltre da quella adesso chiamata Evordia gli Evordi (la maggior parte dei quali restò trucidata, ed una piccola porzione passò a stanziare intorno a Flisca), e dalTAlmopia gli Almopi. Finalmente questi nuovi Macedoni ridussero in loro potestà altri popoli, e li ritengono ancora, come Antemunte, Grestonia, Bisaltia, con gran parte del territorio che apparteneva ai veri Macedoni. Tutto questo corpo di stati è compreso sotto il nome di Macedonia, di cui era re Perdicca figliolo di Alessandro, quando Sitalce vi portò le armi.